Manzoni (Carocci 2020)

Negli ultimi vent’anni, dell’opera di Alessandro Manzoni e in particolare del più celebre romanzo della nostra letteratura, sono state proposte nuove interpretazioni, che a quasi duecento anni dalla nascita – la data ufficiale è vergata sul manoscritto del Fermo e Lucia: 24 aprile 1821 – ne cambiano radicalmente la lettura. Se ciò è avvenuto, lo dobbiamo al concorso di forze diverse, alla collaborazione tra studiosi – alcuni dei quali riuniti in questo volume –, istituzioni pubbliche e private, che hanno sostenuto l’impegnativa impresa dell’Edizione Nazionale ed Europea, la nuova serie degli “Annali manzoniani”, e la doppia edizione critica del Fermo e Lucia (2006) e degli Sposi promessi (2009), cui seguirà a breve la Ventisettana.

Il mutamento di prospettiva, inaugurato dal nuovo secolo, ha preso le mosse dalle carte manzoniane, e da quell’edizione critica che Dante Isella aveva messo in cantiere sin dagli anni Settanta, ma che, a partire dal 2006, si è esteso come in un effetto-domino dalla filologia alla linguistica e alla critica, nella cronologia e nelle opere, ridefinendone rapporti reciproci tra i diversi ambiti di studio, la poetica e il diagramma letterario e linguistico dell’autore milanese, studiato più che ammirato.
Un cantiere di lavoro di edizioni e studi, da cui si è capito che ciò che conosciamo di Manzoni, nonostante la celebrazione e la gran mole degli studi a lui dedicata, è ancora molto poco; sicuramente più di quanto egli voleva che si sapesse.
Ma se la “volontà di archivio” di un autore dice molto dell’immagine che egli vuole consegnare ai posteri, Manzoni ha lasciato che fossero le proprie carte a parlare di sé, a dire quello che – per altri autori – è consegnato alla confessione intima dell’epistolario, o a una dimensione autobiografica o diaristica in lui assente. Come se l’io, «poco noto ad altrui, poco a se stesso», potesse rivelarsi solo nell’opera e, appunto, nelle carte, che egli ha lasciato intatte, documenti vivi di una fedeltà al vero che lo avrebbe portato a «favellare apertamente», anche a rischio di dedicare venticinque anni a un testo che avrebbero letto venticinque lettori, oppure a “tacere” per trent’anni, come avrebbe fatto, sostanzialmente, dopo la pubblicazione della Quarantana.
Questa presa di distanza, sancita dagli studi degli ultimi anni, era necessaria, per un autore che la celebrazione risorgimentale e la monumentalizzazione scolastica hanno costretto a uno splendido isolamento da quelle “genti” di cui aveva voluto farsi interprete, e si traduce in uno sguardo allargato, dal monumento al contesto storico, più europeo che nazionale, in cui si è formato, ha agito, scritto. A partire dagli studi di Ezio Raimondi, che inserisce Manzoni tra i più significativi rappresentanti europei della modernità (e valga in questo senso l’etichetta, solo apparentemente formale, di Edizione Nazionale ed Europea, fortemente voluta da un campione degli studi manzoniani come Giancarlo Vigorelli), dagli anni Settanta in poi, il confronto con l’opera dell’autore è stato innervato da molteplici linee di forza, che hanno permesso approfondimenti nei vari campi in cui, un’opera non vasta, ma distillata da lunga gestazione, si era sempre confrontata: culturale, letterario, linguistico, storico, politico, giuridico, economico. Un’opera che, in ognuno dei campi in cui ha portato il lievito della sua riflessione, ha mostrato la sua sempre maggiore attualità, la forza di una parola “riflessa” che attrae per la sua bellezza e turba per la sua verità.
Quella che è emersa dal laboratorio degli studi manzoniani degli ultimi vent’anni è un’opera nuova, qui presentata dai migliori specialisti, con diversi punti di vista e tagli interpretativi, in un volume che ambisce di avere l’agilità e la guida sicura di un “compagno di viaggio”, per condurre il lettore in un percorso avventuroso, imprevisto, mai scontato, attraverso la conoscenza dell’autore e dell’opera. Un’opera che stimola ancora oggi la riflessione sui grandi temi su cui si interroga l’età presente: il problema del male, la ricerca della verità, la manipolazione della realtà attraverso la parola, la responsabilità individuale, l’acquiescenza al potere, quella «funesta docilità» – come ha scritto recentemente Salvatore Silvano Nigro – che è uno dei nuclei profondi del pensiero politico manzoniano.
Perché Manzoni – lo ha capito bene il Novecento, che ne ha fatto un autore moderno e modello (come ha messo bene in luce nel cap. 13 Mauro Novelli, che scandaglia le diverse declinazioni che l’opera manzoniana ha avuto nel “secolo breve”) – pur nella presa di distanza, a volte siderale, è uno specchio in cui si misura il grado di avvicinamento di ogni cittadino all’ideale nazionale che egli ha incarnato; consacratosi, anche se non fino al punto di esserne coinvolto direttamente, alla causa risorgimentale; quel denominatore comune su cui, bene o male, con curiosità o noia, ogni lettore adulto si è formato da adolescente (a volte tornando alla lettura da adulto), si è riconosciuto (fino a individuare nel “sistema” di don Abbondio lo specifico antropologico nazionale),
ha letto la propria storia in quella delle «gente meccaniche e di piccol affare», trasportate di forza al centro della Storia di “principi” e “potentati”.
Una vicenda romanzesca, non romanesque, che – ora che possiamo seguirla passo dopo passo, variante dopo variante – era stata progettata per catturare l’attenzione del lettore, per fargli seguire, con trepidazione
e paura, attesa e compassione, le peripezie di due giovani, la cui “promessa” di matrimonio veniva contrastata a forza, e portarlo per trentotto capitoli, senza perdere il piacere del racconto, dai monti del lecchese alle rive dell’Adda, attraverso le strade di Monza fino alle colonne di San Lorenzo, in via (ora) Giangiacomo Mora, dove una colonna era stata eretta, sull’abitazione del barbiere rasa al suolo dopo la sua tragica condanna. Catturare il lettore, condurlo per mano, e affiliarlo a una società di mutuo soccorso che organizzasse un «ballo di beneficenza», come Manzoni avrebbe confessato pochi anni dopo la pubblicazione al traduttore francese Jean-Baptiste de Montgrand: «Ç’a été à peu près comme un bal pour les pauvres» (lettera del 31 gennaio 1832, Lettere, lett. 385, p. 653).
Perché un’altra delle conseguenze dello studio delle carte e di uno sguardo critico “europeo” è che la Storia della colonna infame, quella che per quasi due secoli è stata concepita come un’appendice all’edizione definitiva del romanzo, non solo è un testo centrale nella sua struttura narrativa (la parola “Fine” si trova alla fine della Colonna, e non alla fine del capitolo xxxviii dei Promessi sposi), ma molto probabilmente l’«occasione spinta» del romanzo stesso. Ne abbiamo prove evidenti. A partire dalla lettera scritta da Ermes Visconti a Victor Cousin nell’aprile 1821, quando Manzoni non ha ancora terminato la primissima stesura del romanzo, e cioè i primi due capitoli e la prima introduzione al Fermo e Lucia. Come mai i due amici si scambiano confidenze che anticipano i capitoli del tomo iv, se Manzoni non li aveva ancora scritti? E come potevano citare – in limine al romanzo – le vicende di Federigo Borromeo e dell’Ambrosiana che dominano il capitolo xxii, che sappiamo essere stato iniziato non prima del 1823?
I due piani narrativi sono chiarissimi: la «fable du Roman» e i «faits avéreés» (si legga lo stralcio della lettera infra, p. 123), la vicenda dei personaggi inventati: Fermo e Lucia, e i fatti atroci raccontati dagli atti del processo al Piazza e al Mora, che Pietro Verri aveva letto, chiosato e commentato, nelle Osservazioni sulla tortura, con più sdegno che strazio, e che Manzoni – che le aveva lette nell’edizione del Custodi, a 19 anni – aveva chiosato a sua volta, ricavandone il dovere di una lucida, spietata denuncia del male perpetrato da chi dovrebbe farsi tutore della giustizia, ma anche la necessità di inventarsi un modo per farlo leggere, quel processo, al maggior numero di persone. E non solo a giuristi e uomini di legge, ma a tutti, e soprattutto donne, divoratrici di romanzi in tutta Europa. Donne che avevano appena iniziato a fare della lettura il più straordinario strumento di emancipazione sociale (e poi politica); donne che, come sua madre Giulia, grazie alla lettura, avevano potuto mutare i propri destini di vite coniugali non più irreversibili né destinate. Donne che sarebbero state le uniche lettrici di quella storia (ma che non erano in grado di verificarne o meno la veridicità): «Ma di questi libri, dirà taluno, alcuni sono difficili a ritrovarsi, e la più parte nojosi a leggersi, e scritti in uno stile tra il goffo e il lezioso, tra il barbaro e il pedantesco. Alcuni poi sono in latino e come pretendere che si leggano libri latini per convincersi se una storia è vera o supposta? Chi non sa che le signore non imparano pur troppo il latino, e che le signore appunto sono quelle che più si dilettano di leggere storie private? dimodochè i mezzi di fare questa verificazione sarebbero appunto interdetti a chi più probabilmente avrà letta la storia?» (fl 2006, p. 588). Donne, infine, che, attraverso una storia d’amore – un «ballo di beneficenza», un divertimento organizzato per una buona causa – avrebbero finito per leggere anche una riscrittura di quel processo, ne avrebbero seguito le assurde motivazioni, avrebbero preso cognizione della facilità con cui si possa passare dalla ragione al torto e di lì sulla forca, spinti all’autodenuncia dai più raccapriccianti strumenti di tortura, e dalla insipienza di chi, invece di esercitare la giustizia, aveva finito per rinnegarla.
Se, come oggi siamo portati a credere dall’evidenza dei dati storici, tutto parte dal processo agli untori, e la Storia della colonna infame, di cui Giulia Raboni nel cap. 6 presenta una nuova ricostruzione genetica (che ne spiega molto bene lo stralcio, all’altezza della riscrittura della Seconda minuta, quando la digressione era divenuta troppo ingombrante, e avrebbe squilibrato, come quella di Geltrude, tutta l’impalcatura narrativa), era il primum di quel «bal pour les pauvres», si vede bene come i grandi temi che hanno dominato la critica manzoniana debbano essere ribaltati di segno. A partire dalla scelta dei tempi e dei luoghi del romanzo. Manzoni non sceglie un periodo e un luogo, il Seicento e Milano, ma “è scelto” da essi. Semplicemente non può ambientare in altro periodo e in altro luogo il proprio romanzo, perché il processo si è svolto nel 1630 a Milano: in quell’anno e in quel luogo. E gli amici Cousin e Fauriel, che condividono con lui i primi passi, nella scelta di un genere, che giustamente Daniela Brogi (nel cap. 3, dedicato al Fermo e Lucia) presenta come «proscritto», un intrattenimento per fanciulle in cerca di distrazioni sentimentali, ci raccontano – ora le loro parole sono più chiare – la difficoltà del dare verosimiglianza a quel racconto, del fondare su dati storici certi il «quadro della Milano del 1630»: «le passioni, l’anarchia, i tumulti, le follie e le assurdità di quei tempi». Sembra naturale ora (ma non lo è stato per molti anni) che ogni studio critico del romanzo debba partire dal Fermo e Lucia e non viceversa: un romanzo a sé stante, che Brogi ricostruisce nella sua autonomia e potenza narrativa, e di cui, per la prima volta, viene  presentata dettagliatamente la trama.
Ma torniamo all’inizio della scrittura del romanzo, al 24 aprile 1821.
Non è improbabile che ciò che interrompe bruscamente il cantiere dell’Adelchi, e la riflessione sull’identità dei popoli che non possono far valere la propria individualità perché oppressi e divisi (una riflessione che Isabella Becherucci, nel cap. 2, riporta alla formazione parigina di Manzoni, alle letture del Thierry e di Sismondi, e che segue nelle sue avvincenti implicazioni con la censura, per ottenere quell’admittitur, che era il lasciapassare di ogni operazione letteraria), è il processo che dal 6 ottobre 1820 agita Milano, da quando cioè lo studente di musica Piero Maroncelli (di dieci anni più giovane di Manzoni e che morirà a 50 anni) e il già celebre letterato e drammaturgo Silvio Pellico (del 1889, quasi coetaneo dell’autore, ma morto nel 1854, non molto dopo l’amico) sono stati arrestati, grazie ai metodi inquisitori dell’implacabile giudice Salvotti, trentino, ex massone, e indefesso funzionario della polizia austriaca, capace di sottoporre gli inquisiti a interrogatori incessanti e a torture fisiche e psicologiche. È proprio nella primavera del 1821 che Pellico e Maroncelli, tradotti nei piombi di Venezia, crollano sotto gli interrogatori del Salvotti. è lo stesso zelante inquisitore a registrarlo, nella Memoria apologetica, il diario giornaliero degli interrogatori. Un diario del processo che, come la memoria dell’avvocato del Padilla, ce lo presenta in presa diretta, con quel fervore inquisitorio che unisce la rettitudine del funzionario imperiale e la feroce determinazione a estorcere la confessione: «Io non tralascierò di operare a seconda dei miei doveri» – scrive il 10 marzo del 1821, mentre proseguono gli interrogatori – «e griderò mai sempre con quella libera voce, che se non vantaggio frutterà però a me la compiacenza di avere rettamente adempiuto per quanto in me stava al mio incarico» (Luzio, 1901, pp. 65-6).
Ed è proprio – incredibilmente – il 24 aprile del 1821, la stessa data di inizio del romanzo, che Salvotti celebra la vittoria dell’estorta confessione: «Anche Pellico si scosse dopo una lotta di tre giorni e palesò la sua colpa, ma le fila non si poterono estender più in là. E a Milano lo si voleva innocente! Lo sapevano essi com’io […] ma non se ne volean pigliar briga. In queste cose lo zelo è odioso e poche volte riconosciuto dall’alto, ma io mi compiaccio altamente dell’esser in sì breve tempo venuto a capo dell’arduo compito». Da lì in poi le accuse sarebbero rimbalzate di nome in nome, coinvolgendo nella rete carbonara anche gli insospettabili. Ogni data del diario di Salvotti, vale la pena di ricordarlo, è una vittoria che lascia sul campo un nuovo condannato: il 28 maggio 1821, Silvio Pellico, ancora sotto gli incessanti interrogatori dell’inquisitore, accusa Gian Domenico Romagnosi e Melchiorre Gioia, tutti letterati e prelati che con Manzoni avevano e avrebbero avuto rapporti strettissimi, che saranno prosciolti – grazie alla Commissione di Venezia, favorevole a più miti sentenze (il riconoscimento della colpevolezza significava la condanna a morte, o la tradotta nei carceri di Lubiana o dello Spielberg) – dalla sentenza definitiva del dicembre 1821, pronunciata quando Manzoni ha quasi terminato la tragedia, è arrivato a far parlare Adelchi «per puntini». E può riprendere la sua «cantafavola» che, attraverso una «storia così bella» metteva in scena «gli anni già incadaveriti» e li schierava in una battaglia da combattersi sulla pagina stampata. Lui, che, sin dall’eccidio del Prina del 1814, sentito (se non veduto) dalle finestre di via Morone, non avrebbe mai potuto dimenticare la ferocia disumana della folla, e il terrore della sua «funesta docilità», che – come Salvatore Silvano Nigro ha provato – trasferisce su Renzo, acquiescente alle accuse della folla contro il Vicario di Provvisione, l’«affermare appassionato della moltitudine».
Come non spiegarci allora la velocità strepitosa, quasi una frenesia compositiva, che anima Manzoni in tutto quel 1822, fino al 17 settembre 1823? Come non pensare a una lotta contro il tempo, mentre il teatro del processo ai carbonari, che vede coinvolto direttamente Federico Confalonieri, arrestato la notte del 13 dicembre 1821, è diventata Milano, dove, dal 29 maggio 1822 l’efficientissimo Salvotti viene nominato consigliere all’Imperial Regio Tribunale?
La ricostruzione di Donatella Martinelli (cap. 4) del percorso di ristrutturazione narrativa – dal Fermo alla Seconda minuta, e di riscrittura linguistica, dalla lingua “analogica” ed “europeizzante” della Prima minuta, alla versione “tosco-milanese”, di cui è testimone in particolar modo il primo dei tre tomi della revisione, fino alla scelta del toscano (letterario) – sintetizza l’immane lavoro che Manzoni svolge in un arco di tempo tutto sommato limitato, dal settembre 1823 al novembre 1824 (quando esce dai torchi il primo tomo), ma che non ha tregua, perché procede – come sempre accade in Manzoni – muovendosi sul doppio binario della teoria e della prassi, adeguando la forma al concetto, e correggendo quella quando questo porta, approfondendo la riflessione, verso altre conclusioni. L’evoluzione del pensiero e quella  ella prassi linguistica manzoniana sono seguite, alla luce delle recenti acquisizioni filologiche e linguistiche (non solo sulla componente lessicale della lingua, ma anche su quella sintattica, non meno essenziale per la sua modernizzazione) nel capitolo di Mariarosa Bricchi (cap. 9), che rappresenta una nuova carta geografica per leggere Manzoni, una mappa in cui la retorica è sempre “messa a servizio” della logica, e l’analisi ravvicinata del testo mostra la straordinaria capacità di impostare il tema (che sia una descrizione, un fatto, un giudizio) in modo che, poste le possibili opposte soluzioni (in una biforcazione che ben si riflette nel doppio «ramo del lago di Como», evidente anche nel modo di correggere dell’autore), il lettore venga indirizzato, per forza di ragione, a riconoscere quella vera.
è per questa fedeltà al «santo Vero» che già dalla fine del 1823, e per tutto il 1824 e oltre, Manzoni si dedicherà a una ricerca indefessa della lingua, attraverso l’unico strumento di cui poteva disporre: vocabolari e testi di lingua. Ed è questo uno dei filoni di ricerca che si sono rivelati più produttivi e che vengono qui testimoniati nel cap. 8
di Margherita Centenari, dedicato alla biblioteca manzoniana. Biblioteca che il portale Manzonionline permetterà di consultare integralmente, unendo nella virtualità delle riproduzioni digitali le tre biblioteche di Casa Manzoni, della Biblioteca Braidense e di Villa Manzoni di Brusuglio, finora solo parzialmente mappate e catalogate. Si viene così a scoprire come il metodo di lavoro di Manzoni – già illustrato dagli studi di Isella, Gaspari, Danzi, Cartago, Raboni – consista non solo nella riscrittura dei Promessi sposi, parola dopo parola, ma nella ridefinizione teorica di una lingua a partire dalla pratica d’uso delle forme idiomatiche, vere protagoniste della vitalità della lingua e oggetto della sua ricerca, fili rossi che legano postillati, vocabolari e testi in un «ingarbugliato intreccio» che finisce per «impacciarlo come un pulcino nella stoppa» (espressione usata dal Caro nell’Apologia contro il Castelvetro, adoperata da Manzoni in alcune lettere e messa in bocca ad Agnese…). Locuzioni che, dai classici come Plauto, alla tradizione cinquecentesca dei comici toscani, dal Cherubini al Cesari, vengono registrate, vagliate, riformulate e messe a servizio del laboratorio del romanzo. Fino a quando, come sappiamo, appena giunto nella Toscana sognata e idoleggiata (come sarebbe andata “tutta la storia” se quel viaggio fosse stato fatto nel 1822?), quella lingua viene riconosciuta come letteraria, anacronistica, inattuale, incapace di adempiere a quella funzione di unificazione politica che era stata l’occasione spinta del romanzo. E la riscrittura riparte da capo.
Ma c’era stata anche una biblioteca immateriale ad alimentare la scrittura nei primi, frenetici mesi dell’annus terribilis 1821, una biblioteca di libri che Manzoni non acquista, ma chiede con insistenza pari all’affettuosa amicizia che lo legava al conservatore del Gabinetto Numismatico di Brera: Gaetano Cattaneo. E sono i volumi di storia, le gride, le cronache, che avrebbero dovuto sostanziare la verosimiglianza della «cantafavola», e i romanzi di Scott, che legge e rilegge per tutto l’arco di scrittura del Fermo e Lucia. Storia e finzione che procedono in un intreccio insidioso a partire dall’idea di un manoscritto ritrovato, dichiarato in frontespizio, ma inesistente: il confronto tra la prima redazione dell’introduzione, e la sua riscrittura “anticata” e “seicentizzata” a bella posta, mostra la contraffazione dell’autore. Che dichiara di seguire il “vero”, ma confeziona un clamoroso falso. E prosegue per tutto il romanzo a portare in testimonio un autore fittizio, “anonimo”, frutto di invenzione: «Storia del xvii secolo scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni» (anche se un “dilavato e graffiato autografo”, recante le memorie dell’avo Giovanni Manzoni, vero e proprio don Rodrigo ante litteram, era realmente esistito). Una contraddizione che, come ricostruisce Giorgio Panizza nel cap. 10, dedicato al rapporto tra storia e romanzo, si manifesta nel delicato equilibrio tra verità e finzione, nel rifiuto di ogni narrazione non ancorata alla storia, nell’abbandono dell’idillio, ma anche nell’illusione di potere trovare un equilibrio tra storia e poesia, tra la fedeltà al vero e la religione del bello. Per adempiere il compito di ogni operazione letteraria di rappresentare, come Manzoni aveva scritto a Fauriel sin dal 1806: «la meditazione di ciò che è, e di ciò che dovrebb’essere, e l’acerbo sentimento che nasce da questo contrasto».
È proprio a causa di quella estrema fedeltà al vero, che, verificata già all’altezza del settembre 1823, nella Lettera sul Romanticismo, l’impossibilità di conciliare finzione e invenzione, capito che il potere di scrivere romanzi spetta solo a Dio, Manzoni finirà per destituire di legittimità il romanzo, consegnando alla sua riscrittura la caparbia devozione a un lavoro che finisce per giustificarsi solo grazie alla «dicitura», alla funzione parenetica di quella storia: l’unica azione “politica” che alla sua fragilità e debolezza di nervi era concessa. Ma se lo scacco del “verosimile” condanna l’autore al silenzio narrativo, non così sarà per la sua scrittura politica. Bene ricorda Luigi Weber, nel cap. 7 sul saggio sulla Rivoluzione francese, l’incisiva dichiarazione di Ezio Raimondi, per cui Manzoni è «uno scrittore che non si adegua ma che sfida il proprio tempo», e tale risulta dalla ricognizione che la critica ha svolto sul suo pensiero politico, che svela una singolare attualità proprio nel riconoscere, nella forza di «fantasmi e fantasime», l’origine di ogni tragico sommovimento della realtà: una distorsione della parola che conduce, come avrebbe riconosciuto Gadda, alla «inutilità, prava, del fatto». Nella ricostruzione storica dei fatti minuti del maggio-giugno del 1789 (scritta nel 1862, quando l’anziano scrittore riceve l’omaggio di una visita di Garibaldi), troviamo una chiave di lettura delle cause dei sommovimenti dell’oggi e di ogni tempo: le «congetture stravaganti», e, di nuovo con Gadda, le «storture dell’espressione».
Per “togliere la polvere” che si è depositata su molte letture ideologicamente sorpassate, si è voluti ripartire dalle forme storiche in cui la religione di Manzoni si è espressa, forme di cui Pierantonio Frare, nel cap. 11, traccia i contorni attraverso quella “mappa” della religionemanzoniana che è la Morale cattolica, in cui “evidenza” e “bellezza” razionale sono tutt’uno, e che si manifestano poeticamente direttamente negli Inni sacri (come è possibile vedere anche nel laboratorio metrico indagato da Danzi nel cap. 1) e indirettamente nel romanzo, con significative ricadute sull’elocutio, che procede per correctiones, non per antitesi (per superamento, come si è visto anche nella metodologia correttoria, non in opposizione).

Lasciate alle spalle, con questo poderoso bagaglio storico, linguistico, retorico, letture critiche astoriche e totalizzanti, utili ora più alla storia della ricezione e della cultura che a quella del testo in sé, il romanzo approda a una nuova dimensione degli studi grazie alla storicizzazione della dimensione editoriale in cui si viene a realizzare la  Quarantana: non solo una riscrittura linguistica che adegua la lingua del toscano letterario alla dimensione dell’uso vivo parlato dai fiorentini colti, grazie al combinato disposto delle “lavandaie” Cioni e Niccolini e dei suggerimenti della domestica Emilia Luti, ma “romanzo illustrato”, come mostra, con due splendide letture ravvicinate, Salvatore Silvano Nigro nel cap. 12; impresa editoriale e progetto iconografico in cui Manzoni è coinvolto direttamente, nella scelta degli intagliatori, nella strategia della “sceneggiatura” del rapporto testo/immagini, nel commento che esse rappresentano nella nuova veste “popolare”, fino all’edizione del 1869, giustamente tratta dall’oblio, nel medesimo cap. 12, da Francesco de Cristofaro che traccia la storia di un progetto iconografico che non finisce con i legni di Gonin, ma prosegue negli intagli “meccanicistici” di Borgomainerio. È proprio sulla falsariga di questi “nuovi” Promessi sposi, restituiti alla dinamica testo/immagine che procede la lettura di Matteo Palumbo nel cap. 5: un commento testuale e iconografico svolto attraverso le scelte figurative e lo scarto che provocano sul testo già conosciuto dai lettori: diacronia e sincronia si coniugano in un commento nuovo, e il lettore può seguire l’operazione culturale manzoniana, sincronizzato al 1840, ma insieme leggerla in “differenziale” con l’edizione del 1827: una lettura per così dire “stereoscopica” del testo (offerta anche nel portale Philoeditor Manzoni), e, nei passaggi chiave, delle varie interpretazioni.
Se quella data, “24 aprile 1821”, è, pour cause o no, un messaggio nella bottiglia, duecento anni dopo esso è stato raccolto, come un testimone, e passato a una nuova generazione di lettori, che avrà carte, libri, edizioni a stampa e digitali per continuare a leggere e cercare di capire l’autore e la sua opera, necessari e inafferrabili.

[tratto da Manzoni, a cura di Paola Italia, Carocci 2020, pp. 13-22]

Si propone anche l’indice del volume, acquistabile sul sito dell’editore

 

Introduzione di Paola Italia
Opere
1. La poesia
 di Luca Danzi
Manzoni e la poesia/L’esordio giovanile (1801-02)/La svolta pariniana dei Sermoni/La stampa dei versi neoclassici/Dalle Grazie alla Grazia/Il poeta e la politica/Approfondimenti bibliografici
2. Il teatro di Isabella Becherucci
La drammaturgia all’epoca della Restaurazione/Il Conte di Carmagnola: primo tempo/Il Conte di Carmagnola: secondo tempo/L’Adelchi: la prima forma/L’Adelchi: la seconda forma/Approfondimenti bibliografici
3. Il primo romanzo: Fermo e Lucia di Daniela Brogi
Che cosa è Fermo e Lucia/Inventare un romanzo/Dire/scrivere/riscrivere. Una storia del Seicento lombardo/La vicenda e la trama/Approfondimenti bibliografici
4. Dal Fermo e Lucia alla Ventisettana di Donatella Martinelli
I tempi della revisione/Il nuovo progetto/La Ventisettana/Il nuovo progetto linguistico/Fortuna della Ventisettana/Approfondimenti bibliografici
5. I promessi sposi (1840) di Matteo Palumbo
La nuova lingua della cantafavola/Un’edizione illustrata/Il paesaggio e la violenza: l’ameno, il domestico e il selvaggio/Renzo e don Abbondio: il contagio della violenza/Fra Cristoforo: delitto e perdono/Addio ai monti: la fine dell’idillio/Gertrude e le bambole/Renzo e la carità: «La c’è la Provvidenza»/L’Innominato e Lucia: la creatura e la pietà/Il lazzaretto e il cadavere/L’avventura ricomincia. Un uomo in un giorno qualunque della sua vita/Approfondimenti bibliografici
6. La Storia della colonna infame di Giulia Raboni
La genesi del testo/I momenti elaborativi della prima Colonna/La redazione definitiva/Un’opera partigiana?/Il caso Parini/Approfondimenti bibliografici
7. Il saggio sulla Rivoluzione francese di Luigi Weber
Tre giorni contro una vita/Genesi, storia e (s)fortuna dell’opera/Struttura e contenuti/Un rivoluzione mai raccontata/Prospettive, assonanze, suggestioni/Approfondimenti bibliografici/Questioni
8. La biblioteca di Margherita Centenari
Le biblioteche di Manzoni, ieri e oggi/Biblioteche reali, biblioteche fantasma/Ad apertura di libro: Manzoni lettore/Filologia delle biblioteche: edizione, catalogazione, digitalizzazione /Approfondimenti bibliografici
9. La lingua di Mariarosa Bricchi
La novità di Manzoni/La lingua del poeta/La lingua del romanziere/La lingua del saggista/Approfondimenti bibliografici
10. Il romanzo e la storia di Giorgio Panizza
La realtà del guazzabuglio umano/Storia e poesia: l’equilibrio provvisorio nel teatro shakespeariano/Il romanzo storico: un nuovo equilibrio e una risorsa per la poesia/«Una storia così bella»/Solo Dio può scrivere romanzi/Contro la finzione del vero/Approfondimenti bibliografici
11. La religione di Pierantonio Frare
Dall’anticlericalismo al cattolicesimo/Tra ragione e bellezza/Religione e scelte formali/Il romanzo della conversione (e la figura retorica della correctio)/L’inquietudine dell’uomo morale/Approfondimenti bibliografici
12. Il romanzo illustrato di Salvatore Silvano Nigro e Francesco de Cristofaro
Non sopire, non troncare/Negli occhi di chi scrive/L’ora di ricreazione/La macchina fatale/Cristalli di senso/Milano 1869/I Promessi sposi a colori/Approfondimenti bibliografici
13. Manzoni moderno, Manzoni modello di Mauro Novelli
Il vortice e gli abissi/L’eterna prova/Il capolavoro del Novecento/«Idee meschine pinzocheresche, claustrali, e peggio»/ La violenza e l’abiura/Approfondimenti bibliografici
Bibliografia
Indice dei nomi
Gli autori

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